PATTO DI FAMIGLIA. MODIFICHE SOPRAVVENUTE NELLA COMPAGINE DEI LEGITTIMARI “PRESUNTI” AL MOMENTO DELLA FIRMA DEL PATTO.
Tema di queste brevi riflessioni è il tentativo di dare risposta ad un problema conseguente all’introduzione nell’ordinamento positivo del c.d. “patto di famiglia” (nel prosieguo, per brevità, “p.d.f.”). Viene esaminato il caso dell’ assegnatario/discendente che (alla firma del patto) ha regolarmente liquidato il coniuge e tutti i restanti legittimari, secondo il “quadro-legittimari” (dell’imprenditore/disponente) risultante al momento della firma (ove in quel momento si fosse aperta la successione) e che, nel successivo momento della morte (dell’imprenditore/disponente), si trova di fronte una compagine di legittimari parzialmente modificata. In particolare viene concentrata l’attenzione sull’ipotesi di presenza (tra gli eredi) di un diverso coniuge (tale per nuovo matrimonio contratto dall’imprenditore/disponente). E’ il caso, cioè, dell’imprenditore binubo: soggetto già sposato alla firma del patto, che all’apertura della successione è passato a nuove nozze.
In primo luogo è opportuno ricordare a noi stessi che:
– al contratto (di costituzione del “p.d.f.”) di necessità devono partecipare il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore (art.768-quater, co.1°);
– all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art.768-quater, aumentata degli interessi legali (art.768-sexies, co.1°).
Secondo l’opinione dei commentatori più accreditati (1) coniuge e altri legittimari non partecipanti (al p.d.f.) sono in primo luogo il coniuge sposato con l’imprenditore in epoca successiva alla firma del patto ovvero eventuali figli nati dopo la firma. Sono fatte salve, invero, altre ipotesi marginali (di legittimari non partecipanti) che in questa sede non vengono trattate.
Il che significa che, ove all’apertura della successione sono presenti coniuge o altri legittimari sopravvenuti, a richiesta, i beneficiari (2) sono obbligati in solido (ex art.1294 c.c.) a corrispondere ai “non partecipanti al patto” la somma prevista dal 2° comma dell’art.768-quater aumentata degli interessi legali.
Nel caso da noi prospettato, il discendente-assegnatario ha già soddisfatto (al momento della sottoscrizione del patto) le ragioni del precedente coniuge. Circostanza peraltro che non lo esime dall’obbligo (solidale) di pagare al nuovo coniuge la somma di spettanza.
Da ciò la domanda: tale ulteriore esborso dovrà gravare sul personale patrimonio del discendente/assegnatario (dell’azienda o partecipazione societaria)? E in ipotesi affermativa in base a quale plausibile motivazione. Oppure, fermo per il discendente/assegnatario l’obbligo solidale di pagare al nuovo legittimario, contestualmente egli ha diritto a richiedere al primo coniuge (in caso di divorzio) ovvero ai di lui eredi (in ipotesi di premorienza) la ripetizione di quanto in precedenza versato ?
Vista da altra angolazione la domanda può porsi nei seguenti termini: Quid dei beni (somma di denaro o beni in natura) che il coniuge (poi deceduto ovvero divorziato) ha ricevuto dal discendente/assegnatario (dell’azienda o partecipazione societaria) ex 2° comma dell’art.768-quater. Deve ritenersi che tali beni (denaro o beni in natura) siano stati acquisiti definitivamente nel patrimonio del coniuge, con facoltà (ancorchè divorziato) di poterne liberamente disporre aut (in ipotesi di morte) che tali beni concorrano alla massa dei cespiti in successione. Ovvero è corretto riconoscere (al discendente/beneficiario) un diritto alla loro retrocessione?
Il problema, tutt’altro che scolastico, non è stato regolato in modo esaustivo dal legislatore, il quale evidentemente presuppone una configurazione necessariamente statica della compagine dei legittimari. Ma così non accade…meglio: così non sempre accade. Spetta quindi all’interprete colmare la lacuna.
In materia, preliminarmente, è il caso di fare chiarezza su un possibile equivoco: in tema di p.d.f. è affermazione ricorrente che quanto stabilito non può essere rimesso in discussione(3). Ritiene lo scrivente che il cennato principio deve intendersi riferito unicamente al divieto di collazione o di riduzione dei beni dedotti nel patto, come del resto si rileva dalla lettura dell’ultimo comma dell’art.768-quater.
E sta di fatto che “riduzione” e “collazione” sono istituti del tutto estranei al problema specifico che in questa sede interessa.
Quanto alla “collazione” la legge (art.737 c.c.) prevede che i legittimari che concorrono alla successione (e tra questi il coniuge) devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione (direttamente o indirettamente). Nel caso in esame il primo coniuge non è erede in quanto premorto aut divorziato. Ne segue che egli non concorre con i legittimari. E non essendoci concorso di legittimari l’eventuale riferimento all’istituto della collazione sarebbe del tutto improprio.
Quanto alla “riduzione” la legge (art.555 c.c.) stabilisce “le donazioni il cui valore eccede la quota della quale il defunto poteva disporre sono soggette a riduzione…“. Nel nostro caso non si tratta di ridurre per lesione di legittima la liberalità (indiretta) conseguita dal coniuge (come tale improponibile ex co.4 dell’art.768-quater). Basti considerare che, ove si trattasse di “riduzione”, per procedere si dovrebbe attendere la morte dell’imprenditore/disponente (e noi riteniamo, per le ragioni che vedremo, che tale attesa non è richiesta); poi perchè, a morte avvenuta, si dovrebbe provvedere alla c.d. riunione fittizia (relictum + donatum), indi verificare se, nel caso di specie, ricorre l’ipotesi della lesione e solo in quest’ultimo caso agire in riduzione. Meccanismi che sono assolutamente estranei al caso che qui interessa.
Da ciò segue che la ratio delle disposizioni (introdotte dal p.d.f.) non è stata tanto quella di sterilizzare ogni ipotesi restitutoria, ma soprattutto quella di evitare la retrocessione (dei beni dedotti nel patto) quando accompagnate da contorni “ulteriori” del tipo: immobili restituiti (in conseguenza a riduzione ex art.555 e seg. c.c.) che tornano liberi da pesi o ipoteche (di cui il donatario può averli gravati); immobili alienati che il legittimario (premessa l’infruttuosa escussione del donatario) può ottenere in restituzione anche dagli aventi causa nel modo e nell’ordine in cui potrebbe chiederli ai donatari medesimi. Trattasi di “forme di tutela” (dei legittimari) che il legislatore (del p.d.f.), in tema d’impresa, ha valutato eccessivi perchè ostacoli alla successiva commercializzazione dei beni dedotti nel patto e che quindi, nel superiore interesse della produzione, ha ritenuto utile mitigare.
Comunque la disattivazione (degli istituti della collazione e della riduzione) non può intendersi come principio di portata generale applicabile ad ogni ipotesi “restitutoria”. Si vuol dire che la volontà del legislatore non è stata quella di assicurare sempre e comunque la “stabilità del patto”, ma piuttosto quella di prevederne la stabilità solo per determinate fattispecie (quelle e non altre).
Ancora: disattivazione non significa divieto di restituire (in denaro) una parte del valore dei beni aziendali o partecipazioni sociali. Basti pensare che i legittimari “sopravvenuti”, alla morte dell’imprenditore/disponente, hanno diritto di ottenere (a spese dei beneficiari) il pagamento della somma prevista dal 2° comma dell’art.768-quater, aumentata degli interessi legali. Ed è da ritenere che analogo diritto spetti ai “legittimari non assegnatari” (dell’azienda o partecipazioni sociali) che, in sede di sottoscrizione del p.d.f., hanno rinunciato (in tutto o in parte) a conseguire la somma corrispondente al valore della loro quota di riserva (sull’azienda o partecipazioni sociali). Ciò perchè siffatta eventuale manifestazione di volontà (stante la permanente vigenza dell’art.557.2 c.c.) non può intendersi rinuncia ad una parte della quota di riserva. Ma più semplicemente come rinuncia a conseguire da subito (cioè al momento della sottoscrizione del patto) l’acconto sulla futura quota di riserva. Con la conseguenza che la quota “riservata” (per il legittimario già rinunciante ex 2° comma dell’art.768-quater) andrà per intero soddisfatta all’apertura della successione. Salvo ovviamente che risulti precedentemente soddisfatta con altre liberalità dell’imprenditore/disponente ovvero (ad avvenuto decesso) venga soddisfatta con eventuali “altri beni” compresi nella successione.
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Tanto chiarito, al fine di dare risposta al quesito che ci siamo posti, è opportuno stabilire la natura del pagamento che, al momento della firma del p.d.f., il discendente/assegnatario (dell’azienda o partecipazione societaria) effettua a favore del coniuge dell’imprenditore/disponente.
Si consideri: Il p.d.f. comprende certamente una componente di liberalità proprio perchè l’imprenditore/disponente non riceve alcuna contro-prestazione. In quanto contratto con componente donativa, lo stesso si colloca nel campo delle “donazioni modali” (di cui all’art.793 c.c.) perchè pone (a carico del discendente/assegnatario) l’onere di liquidare, in tutto o in parte e salvo rinuncia, i legittimari (presunti al giorno della firma del p.d.f.) mediante il pagamento di una somma di denaro (e/o beni in natura) di valore pari al valore delle quote previste dall’art.536 e seguenti c.c.-.
Esempio. Posto che il valore netto dell’azienda (conseguita dal discendente/beneficiario) sia pari a 120; che i legittimari (quali appaiono alla data della firma del p.d.f.) siano il coniuge e tre figli; che il discendente/beneficiario non sia egli stesso legittimario (perchè discendete/nipote); che il beneficiario (dell’azienda o partecipazione societaria) liquidi i legittimari con denaro. In siffatta ipotesi il discendente/beneficiario corrisponde al coniuge 30; ai tre figli (insieme) 60 (art.540.2 c.c.).
Come dall’esempio appena fatto, nel momento in cui il discendente/assegnatario liquida la quota del coniuge (nel nostro esempio in denaro, ma la liquidazione potrebbe essere anche parzialmente o totalmente in natura), egli altro non fa che adempiere un onere (previsto dalla legge a suo carico) e ribadito in una clausola contrattuale. Vero è che il donatario è tenuto all’adempimento dell’onere (art.793.2 c.c.). Ma è anche vero che (nel caso di specie) egli in precedenza ha adempiuto e che quindi sarebbe del tutto iniquo prevedere, a carico di chi ha già adempiuto, il dovere di reiterare (in conseguenza di un fatto a lui non imputabile) l’adempimento dell’onere in precedenza già soddisfatto. Per ovviare a ciò è gioco-forza riconoscergli – contestualmente – il diritto a riottenere in restituzione l’importo di quanto precedentemente versato.
Le ragioni: per il beneficiario dell’onere (nel nostro caso il coniuge) quanto da lui conseguito costituisce liberalità indiretta dall’imprenditore/disponente a proprio vantaggio(4), che trova il suo presupposto nella circostanza che egli mantenga lo status di legittimario anche nel successivo momento dell’apertura della successione (dell’imprenditore/disponente). Ricorre l’ipotesi nota in dottrina col termine presupposizione, che significa condizione implicita (ancorchè non dichiarata), che si realizza nei casi in cui, da un interpretazione della volontà delle parti secondo buona fede, risulti che le stesse parti pur non facendo espressa menzione del fatto “presupposto” – hanno considerato quel fatto pacifico e determinante per la conclusione del contratto. Con l’effetto che ove la situazione di fatto (che le parti implicitamente hanno posto a fondamento dell’accordo) risulti poi insussistente il contratto (almeno la clausola contrattuale che interessa) è soggetto a risoluzione.
Detto con altre parole: La liberalità indiretta (a favore del coniuge) venne posta in essere nella presupposta convinzione (poi risultata errata) che quel determinato soggetto (coniuge alla firma del patto) avesse mantenuto tale status anche nel successivo momento della morte dell’ imprenditore/disponente.
Conforta tale affermazione, tra l’altro, la considerazione che i beni che il discendente/beneficiario (ex art.768-quater) assegna agli altri partecipanti vanno imputati alle quote di legittima loro spettanti. Ora, se quota di legittima non spetta (perchè, contrariamente alle previsioni, all’apertura della successione, quel soggetto era premorto aut divorziato) ne segue che il fatto presupposto non si è verificato. Conseguentemente l’atto è impugnabile.
Visto da altra angolazione: per il coniuge divorziato (ovvero per gli eredi del coniuge premorto) conseguire definitivamente quanto ricevuto costituirebbe un arricchimento senza causa.
Infine, conseguenze logiche di quanto sin qui detto (ossia suoi corollari) sono:
- a) La richiesta di annullamento, non vertendosi in tema di riduzione ex art.553 e segg. c.c., potrà essere proposta (anzi sarà opportuno venga proposta) subito dopo che si sarà verificato l’evento che ha determinato (nel beneficiario) la perdita dello status di potenziale erede legittimario (premorienza ovvero divorzio del coniuge). Senza necessità, quindi, di attendere l’apertura della successione dell’imprenditore-disponente.
- b) L’ annullamento (del beneficio a favore del legittimario che ha perso tale status), non trattandosi di azione di riduzione ex art.553 e seguenti c.c. (lo abbiamo in precedente ricordato) non gode, ahimè, delle guarentigie che (ex art.561 c.c.) assistono la restituzione in ipotesi di riduzione;
- c) L’annullamento (parziale) del p.d.f. non pregiudica in alcun modo gli eventuali diritti medio termine acquistati dai terzi (in buone fede), salvo gli effetti della domanda giudiziale. Vale al riguardo il principio generale “prior in tempore potior in iure“, con tutte le implicazione che ne conseguono. Gli effetti, nei confronti dei terzi, sono analoghi a quelli che si producono nell’ipotesi di revoca della donazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli (ex art.808 c.c.);
- d) L’azione, per l’impugnazione del patto (nel nostro caso di una clausola del patto), si prescrive nel termine di un anno (art.768-quinquies, co.2°), decorrente – come parte della dottrina sostiene(5) – dal giorno dell’apertura della successione dell’imprenditore/disponente.
- e) La tesi esposta, ove condivisa, evita al discendente/assegnatario l’iniqua situazione in cui (prevalendo opinione diversa) si troverebbe nell’ipotesi in cui, obbligato a reiterare il pagamento, non gli fosse data la possibilità di ripetere quanto in precedenza corrisposto all’erede apparente.
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Quanto sin qui detto ha preso le mosse dalle necessità di dare una corretta lettura della norma mirata ad ovviare alla situazione di grave disagio (del discendente/beneficiario) che si trovi nella necessità di corrispondere al coniuge dell’imprenditore binubo un indennizzo già corrisposto al precedente coniuge (legittimario apparente alla data della firma del p.d.f.).
Le considerazioni appena fatte, peraltro, ci consentono di allargare il discorso – sia pure con le varianti del caso – estendendolo ad ogni ipotesi di modifica sopravvenuta nella compagine dei legittimari: quadro-legittimari all’apertura della successione modificato rispetto a quello che si prospettava alla firma del p.d.f.-.
Si pensi (tra l’altro) al caso del figlio premorto: i suoi eredi (es: la moglie del premorto), non hanno motivo di ritenere ciò che era stato attribuito al loro dante causa nel presupposto (poi erroneo) che egli avesse conseguito la qualità di erede-legittimario (dell’imprenditore/disponente). E questo anche perchè (salvo rappresentazione a favore di eventuali figli) il “prospetto di riparto” necessariamente varia col variare del numero dei legittimari: in caso di diminuzione (del numero dei legittimari) è evidente che la “quota” di ognuno andrà “aumentata” col concorso di quanto conseguito da chi (supposto legittimario alla firma del patto) nel successivo momento dell’apertura della successione (dell’imprenditore-disponente) tale non è poi risultato in quanto premorto. Da ciò la necessità che quel “tot” deve ritornare all’onerato (discendente/beneficiario) per essere attribuito pro quota a quelli che, alla fin fine, risultino gli effettivi legittimari.
Ulteriore ipotesi di modifica (del quadro/legittimari) è quella di figli nati dopo la firma del p.d.f.-. E’ evidente che, salvo che le ragioni di quest’ultimi siano state soddisfatte con donazioni (in vita ricevute dall’imprenditore) o che vengano appagate sull’eventuale relictum (posto che vi sia e sia capiente), dovranno essere soddisfatte con mezzi finanziari propri dai beneficiari(6) del patto in conformità a quanto previsto dall’art.768-sexies (per come superiormente accennato).
Per concludere. Tutto quanto sin qui detto può così sintetizzarsi: il quadro legittimari determinate è quello finale (quello cioè che risulta al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore/disponente). Il precedente quadro legittimari (quello supposto alla firma del p.d.f.) ha valenza solo provvisoria. Nel senso che la sua validità è limitata a quegli eredi (già presunti legittimari) che conservino tale status anche nel successivo momento della morte dell’imprenditore/disponente.
Francesco Notaro (notaio in pensione)
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(1) Conforme, con altri: N.Di Mauro “Il Patto di Famiglia”, A. Giuffrè Editore, pag.153.
(2) L’uso del plurale (“beneficiari”) fa ritenere che il riferimento è a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno tratto benefici dal p.d.f.-.
(3) Nella “Relazione Pastore” al disegno di legge n.2799 del 2.10.1997 (con riferimento all’ultimo comma dell’art. 768-quater) si legge: “La norma chiude il sistema prevedendo che quanto pattuito nel contratto non può essere rimesso in discussione dopo l’apertura della successione.” .
(4) Come è confermato dalla circostanza che “i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti (al p.d.f.) sono attribuiti alle quote di legittima loro spettanti (art.768-quater, co.3°).
(5) Così E. Minervini “Il Patto di Famiglia” (opera già citata) pag.134).
(6) Idem come “2”.